Sin dall’antichità, saggi e maestri, indipendentemente dalla tradizione a cui appartenevano, hanno rilevato l’esistenza di un’energia fondamentale che trascende il tempo e lo spazio, che comprende tutte le cose e le creature dell’universo e che influenza la vita e la salute di tutti gli esseri viventi. Quest’esergia è stata chiamata con nomi differenti: prana (yogi), mana (polinesiani e hawaiani), qi (cinesi), ki (giapponesi), vis medicatrix naturae (Ippocrate), pneuma (Galeno), telesma (Hermes Trismegistos).
Il medico e alchimista Robert Fludd la chiamò “spiritus” ; gli adepti della kabala, restringendone il significato, la chiamarono “luce astrale”; il medico Franz Anton Mesmer la chiamò “fluido magnetico”, mentre lo psichiatra Wilhelm Reich fu il primo a darle il nome di “energia organica”. Infine, gli scienziati e i parapsicologi la chiamarono “bioenergia”.
Secondo l’antico insegnamento hindu, il prana è il potere divino che ha dato avvio al processo di creazione dell’universo ed è parte integrante di tutte le forme di vita. E’ presente anche nelle cose inanimate come forza vitale che tiene coesa la cosa in sé.
Il prana non contribuisce, però, solo all’azione di creazione e di conservazione degli universi. Quando un essere o una sostanza raggiunge la fine del proprio ciclo vitale o della sua esistenza indipendente, l’energia che l’ha sostenuto viene riassorbita nel prana universale.
Il prana personale è permanentemente in contatto con l’infinita riserva del prana universale attraverso i chakra, centri energetici del nostro corpo che hanno il compito di trasformare l’energia universale del prana in energia del corpo individuale (energia calorica, chimica, meccanica, fisica, mentale e spirituale).
Secondo la fisiologia induista, la conservazione del prana personale deriva dal corretto svolgimento di tutte le funzioni psicologiche, emotive e fisiologiche necessarie al mantenimento dell’armonia psicofisica. Uno dei modi più evidenti attraverso cui otteniamo il prana è dato dalla respirazione che veicola, oltre all’ossigeno (elemento grossolano) anche la vitalità (elemento sottile) che prendiamo dall’aria. Tuttavia, otteniamo questa vitalità non solo dall’aria, ma anche dalla terra, dal cibo, dall’acqua, dal sonno, dall’interazione con le correnti elettromagnetiche dell’universo, ecc.
Nello yoga e nelle tecniche di guarigione indiane, il saper controllare il respiro e, quindi, il prana personale, assume un ruolo fondamentale, poiché questa funzione, intimamente legata al nostro sistema nervoso vegetativo, viene posta sotto un controllo consapevole: respirare in modo adeguato, con la corretta intenzione, e convogliare la vitalità lungo canali specifici, detti nadi, calma la mente e ci fa ottenere effetti terapeutici significativi. Ed è per questo che lo yoga prevede una serie di tecniche respiratorie che costituiscono il pranayama (prana = soffio vitale; yama = controllo) e che hanno lo scopo di farci respirare in modo controllato e consapevole. Questo tipo di respirazione si compone di tre fasi:
- inalazione (puraka) che stimola l’organismo
- esalazione (rechaka) che espelle l’aria carica di tossine
- ritenzione del respiro (kumbhaka) che distribuisce l’energia in tutto il corpo.
La pratica del pranayama ha bisogno di una buona conoscenza delle asana che consentono di rimuovere i blocchi fisici che impediscono il flusso del prana. I momenti migliori per il pranayama sono il mattino presto e dopo il tramonto. E’ consigliabile praticarlo almeno 15 minuti al giorno con proposito e regolarità, alla stessa ora, luogo, posizione, seduti sul pavimento, su un piccolo cuscino o una coperta piegata, mantenendo la schiena eretta. E’ necessario tenere gli occhi chiusi per evitare che la mente si distragga a causa degli oggetti esterni. Dopo aver terminato la pratica, è utile stendersi in posizione savasana (sdraiati in posizione supina) per almeno 5–10 minuti, in completo rilassamento e silenzio.